Le parole del professor Sambin: “Noi trattiamo l’oggetto più complesso che c’è sul piano dell’esistere, che è un altro essere umano.
In un certo modo di fare scienza c’è come il desiderio di trovare immediatamente una soluzione, di chiudere il reale, di definirlo in maniera che sia facile dargli una forma. In questo modo ci sfuggirebbe la complessità della realtà che abbiamo davanti: noi come psicologi clinici dobbiamo avere un atteggiamento per cui riusciamo a reggere questa complessità e aspettarci di non avere immediatamente una risposta, reggere l’ansia fisiologica che ci viene quando il nostro reale non è sufficientemente definito. Allora non chiudere l’esperienza, tieni aperto”.
“Devo accettare il reale e vedere la complessità che ha, ma questo non significa abbandonare le mie modalità di definirlo. Certo tengo aperto, ma ci sono dei momenti in cui do forma a quello che sta avvenendo e darò forma in funzione di tutto quello che avrò imparato, ivi compresi i modelli teorici. Quindi nel costruire l’esperienza con l’altro oscillerò in momenti in cui la definizione non è possibile, e momenti in cui l’interazione con l’altro mi permette di dare una forma”.
“Tu entri in relazione terapeutica con l’altro sicuramente sulla base di un modello, ma il modello è semplicemente uno strumento, non è la relazione. È una qualche cosa che ti aiuta in qualche modo a tacitare la tua ansia nel momento in cui ti incontri con l’altro. Ti aiuta ad avere una guida e quindi: “Ah secondo il modello A, se lui sta facendo così, io devo fare queste operazioni”. Provi a farlo, ma la relazione non sta in questi tuoi maldestri o molto esperti tentativi, non sta in questo, l’aspetto terapeutico non è qui. L’aspetto terapeutico è nell’incontro tra lui e te, al di là del modello”.